Cos’è Questa Storia dei Chip che Mancano?
In questi mesi se ne sta parlando a intermittenza, ma penso che sia arrivato il momento di entrare in scivolata sulla questione. Chi segue il mercato dei veicoli elettrici e dell’elettronica in generale avrà notato che in questi giorni c’è un tema ricorrente: le aziende pubblicano dei dati trimestrali molto positivi sulle vendite e sugli utili, ma le azioni calano.
Come mai?
Le azioni calano perché nella discussione dei dati trimestrali ogni azienda del settore (Nio, Tesla, Ford, ecc.) mette le mani avanti: nei prossimi mesi la gestione aziendale risentirà del fatto che mancano i chip. Proprio così. Se hai una fabbrica di chip che non usi più da qualche anno, potrebbe essere il momento di riprendere l’attività.
Detta così sembra una cosa da nulla, perché nessuno di noi mangia microchip e nessuno di noi ha la benché minima idea di quanto peso abbiano sulla sua vita. Noi utilizziamo il prodotto assemblato, ma non ci facciamo grandi domande su cosa ci sia al suo interno.
Due numeri al volo: nel 2019 sono stati prodotti 634 miliardi di microchip per un giro d’affari complessivo di 412 miliardi di dollari. Il dispositivo che stai usando per leggere questo post ne ha almeno uno (più probabilmente 4, 8 o 12); il bancomat ne ha uno, la carta di credito anche, ogni elettrodomestico, macchina, moto, monopattino elettrico, smartwatch, tablet, seggiovia, apparato per le radiografie e così via.
Se c’è una cosa che poi è particolarmente ricca di microchip sono le auto elettriche. Spesso e volentieri una sola auto elettrica contiene più di 100 semiconduttori, motivo per cui tutte le grandi aziende del settore sono ora fortemente penalizzate dalla carenza globale di queste componenti.
Ma perché tutto questo?
Tutto inizia nel 2018, quando Intel riduce la dimensione dei suoi chip da 14 nanometri a 10 nanometri. Lo sviluppo e la produzione si rivelano più complessi del previsto, le cose iniziano ad andare male, così il lancio dei chip da 7 nanometri viene rinviato ancora.
Ai produttori di “cose elettroniche” non piace che ci siano problemi di offerta, tecnologia, sviluppo e produzione. Così, anche approfittando dei passi in avanti della grande concorrente di Intel, molte aziende si sono rivolte a AMD per la fornitura di chip.
Il problema è che AMD delega la produzione dei chip all’azienda attualmente più avanzata del mondo nella loro produzione, la Taiwan Semiconductor Manufacturing.
Insomma, il mercato stava già traballando prima dell’intera questione Covid. Poi è arrivata la pandemia, che ha peggiorato le cose: la domanda di dispositivi elettronici per il remote working e la didattica a distanza è aumentata a dismisura, mentre la filiera che trasporta i chip da Taiwan al resto del mondo ha rallentato il passo.
Non era sicuramente il momento per una grande innovazione che richiede enormi investimenti in microchip, ma ormai il 5G era già oggetto di investimenti miliardari programmati da anni. Il costo dei chip per un cellulare 5G è di 25$, contro i 18$ del 4G e gli 8$ del 3G. Questa scala economica riflette il grado di complessità e risorse aggiuntivo richiesto dall’adattamento alla nuova tecnologia.
Ovviamente è anche aumentato il traffico di dati in rete, gestito da server che giustamente hanno altrettanto bisogno di microchip.
Gli impianti della Taiwan Semiconductor Manufacturing (TSMC) stanno venendo impiegati a un tasso di utilizzo superiore al 100% ormai da 12 mesi. L’azienda ha già annunciato un piano da 100 miliardi di dollari per aumentare la produzione, ma non è un tipo di produzione che si può aumentare dal giorno alla notte.
Per realizzare uno stabilimento che produce microchip ci vuole davvero tanto, tanto tempo. Sono oggetti nanometrici e altamente sofisticati che richiedono apparecchiature incredibilmente avanzate, ambienti di lavoro sterili, temperature controllate e un’attenzione maniacale per qualunque cosa.
Basta così? Non proprio.
Uno dei maggiori fornitori mondiali di chip per automobili elettriche, la giapponese Renesas, ha avuto una brutta giornata a fine marzo. Una di quelle giornate in cui ti svegli e all’improvviso uno dei tuoi impianti prende fuoco, bloccando la produzione per un mese.
Insomma: il mercato chiede più chip che mai, più complessi che mai. Intel cerca di raccapezzarsi, TSMC investe l’equivalente di tre manovre finanziarie medie di una nazione OCSE e la sfortuna gioca la sua parte.
Il mercato, secondo le previsioni degli stessi produttori di auto elettriche, ci metterà due anni a smaltire gli arretrati. Biden, che ormai mette sul tavolo i miliardi come noccioline, ha buttato lì l’idea di investire 50 miliardi federali per aumentare la produzione americana di chip.
Ma anche con tutti i miliardi di questo mondo, ci vorrà tempo.
Chi spicca in questo quadro?
Intanto, zitti zitti, quelli di STMicroelectronics non hanno dato fuoco a niente e tutte le grandi tech companies del mondo se ne sono accorte. Il titolo vola in Borsa, ma prima di tutto volano l’azienda e la sua capacità di distinguersi in uno dei momenti più difficili per il settore.
In questo caso, lasciatemi dire, è il mondo intero che sta puntando sull’Italia.
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